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Nel Gelso

Notiziario sentiero bioregionale – TEMA “approdi: quando il luogo ti mette alla prova, ti sprona, ti (ri)genera

Quando mi chiesero di provare a scrivere un pezzo che avesse a che fare con la propria (ri)generazione che nasce dal legame con la natura che s’incontra, mi sono chiesto se avessi maturato una consapevolezza sufficiente riguardo il mio legame con essa. Ho lasciato decantare la proposta, arrivata in un periodo per me molto delicato di messa in discussione e rigenerazione, in cui sto vivendo un ritorno lento alla natura e un bisogno di riconoscerle e darle spazio dentro i miei pensieri, le mie riflessioni e le mie azioni. Piano piano, rientrando nella natura lascio che essa entri e mi abiti. Esemplificando mi verrebbe da pensare che spesso vagabondando mi son detto che bello quell’albero, che montagna stupenda, che pace in questo bosco, che suono piacevole questo ruscello… Ora inizio a sentire che la pace di questo bosco ha a che fare con quello che ho dentro. La natura mi riconnette al mio profondo, a quello che talvolta non riconosco, quello che mi fa paura, quello cui non riesco a dar parola, quello che attendo. In questo tempo di ricerca si sono messi in fila i ricordi di cinque gelsi come se mi avessero accompagnato in diverse tappe della mia vita, fino a farmi sentire io stesso un gelso.

Il Gelso che guarda il Canto Alto e ascolta il fluire del Morla (Ramera): sull’affrontare il pericolo. (la scoperta e i pericoli)

Il Gelso accanto alla Goccia (Bovisa): sul resistere e donare. (il dono della Resistenza)

Il Gelso ai confini del bosco dei Colli (Valmarina): sul concedere e ispirare.

Il Gelso a guardia dei campi ai piedi di Città Alta (Villaggio degli Sposi): sul ritrovare casa e accogliere.

Il Gelso in salita verso il Monte Bastia: sul differenziarsi.

 

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45°43’33.2″N 9°39’10.9″E

Si può dire che l’ho visto nascere. Dal sentiero in salita il passeggino mi veniva incontro, poi, all’incrocio dei sentieri sotto i miei piedi, a volte prendeva la strada che sale verso le case, altre quella verso l’oratorio. Ai tempi dell’asilo era sempre mamma ad accompagnarlo. Avanti e indietro ogni giorno. Parlavano, cantavano, era quasi sempre solare, sorridente, spensierato. Crescendo passava meno di frequente, solamente il fine settimana per andare in oratorio o, più spesso, in estate. Quella volta, ancora con la mamma, avrà avuto cinque anni. Lei si ferma a una decina di metri, lì sotto dove il sentiero incrocia una deviazione, e blocca il bambino stringendogli forte la mano. Si china, lo guarda negli occhi indica il grosso alveare di calabroni dentro il vuoto del tronco, come fosse il mio cuore. “È pericoloso, devi girargli alla larga. Da oggi prendiamo questo sentiero qui sotto, l’allunghiamo ma è più sicuro.”. I giorni seguenti il bimbo arrivava con i suo pantaloncini, le tasche sempre piene di chissà cosa e le gambe magre. Si fermava per qualche secondo all’incrocio. Mi guardava e mi sembrava un po’ triste. Arrivarono i pompieri a togliere l’alveare e quel via vai continuo di calabroni. La domenica successiva il bimbo tornò. Mi sembra di rivederla ora la scena. Si fermò all’incrocio. Piegò la testa un po’ a destra e un po’ a sinistra. Non feci in tempo ad accorgermi del suo ripartire che, bruciata la salita, abbracciò il mio tronco. Era così piccolo che con la mani non riusciva nemmeno ad arrivare a metà. E con la testa non arrivava al mio cuore. Da allora, quando passava, accarezzava sempre le rughe della corteccia, mi abbracciava e io lo vedevo crescere per la misura del suo abbraccio, come fosse il crescere del legame e del bene che ci vogliamo. Questo finché non è cresciuta alta questa siepe che dal confine degli orti è risalita fino a me togliendomi il fiato. Da qualche anno passa molto raramente, spesso con suo fratello. Quando è qui sotto si ferma e mi guarda. Da un po’ di tempo anche suo fratello rallenta il passo e saluta. 

45°30’05.0″N 9°09’14.2″E

Mai nessuno aveva osato tanto. Ecco, ricordo quel gesto del porgere e del fidarsi, mettendo in bocca e gustando la mia mora viola. Qui in Bovisa sopravvivere non è facile. Ora è sorto il Politecnico. C’erano spazi grandi, terreni che non valgono più nulla perché da bonificare e quindi, immagino, quasi regalati all’università. Siamo quattro sopravvissuti alle grandi fabbriche di vernici del secolo scorso. I liquami, gli scarti, i gas e la chimica piano piano si sono diffusi nel terreno, meglio delle nostre radici. Ci guardiamo intorno e al di fuori dell’area tutelata della Goccia, gli alberi ad alto fusto son venuti giù. Uno a uno hanno mollato l’andar verso il cielo e si sono sdraiati a terra, esausti. Siamo noi quattro a essere rimasti. Come guardiani. Qualcuno penserà che siamo scappati fuori dalla riserva, non considerando che tra noi e il resto, proprio qui dove abbiamo radici, è il resto a essere ospite, nemmeno troppo desiderato. Noi resistiamo. Da quando c’è l’università i giovani passano, giocano a ping pong qui sotto, ma alzano di rado lo sguardo alla mia chioma. Si accorgono d’estate quando si ammassano tutti replicando con i loro corpi la mia ombra. Un giorno di tanti anni fa eccoli. Escono e vanno di passo spedito verso l’uscita del campus. Una volta sotto la chioma lei si ferma e tira per un braccio lui. “È tardi, lo perdiamo”. “Sono pronte le more del gelso”. Ne strappa una e allunga la mano sporca di rosso verso di lui “Provala”. “Ma si può mangiare?”. Lei sorride. Lui assaggia incredulo e poi gusta. Ne hanno prese altre facendomi il solletico e dimenticandosi del treno e di altri viaggi. Ogni tanto ritorna. Capita più spesso in autunno, quando io conservo ancora tutte le mie foglie. Arriva quando il sole è calato, sempre con alcuni fogli in mano e le mani sporche di gesso. Gira tra noi quattro a passo lento, si volta e poi se ne va.

45°43’22.4″N 9°38’55.8″E

C’era un via vai di gente in quei giorni per le continue manifestazioni che si fanno dentro l’ex monastero qui accanto in vista dell’Expo. Quando tutti erano dentro per la conferenza, arriva un giovane e inizia a guardarmi, mi gira intorno, mi si avvicina e si arrampica fino a sedersi dove il mio tronco si fa rami. Ci sta un bel po’. Cambia posizione, si sdraia, mi abbraccia prima un ramo, poi si distende sull’altro. Legge e si riposa. Poi prende un taccuino e disegna. Ci vuole il chiacchericcio della gente che esce dal cortile della struttura per farlo scendere. Un volta a terra mi gira ancora attorno, appunta ancora qualcosa sul taccuino e se ne va. Ritorna dopo un mesetto con altri due giovani. Hanno con loro una sedia in lamellare di betulla, che aveva tre gambe mentre la quarta era un tronco vero di betulla. Se ne andavano in giro per i campi qui attorno a fare le fotografie alla sedia. “Questo è l’albero che mi ha donato l’idea”.

45°41’00.5″N 9°38’58.3″E

Erano diversi i turisti che mi venivano a trovare. Frugano nel tronco, tra le storture che ho, sui rami più bassi. In realtà non cercavano me ma una scatolina piccola, nascosta proprio bene. Alcuni ci mettevano poco, altri più di un’ora. Intanto mi facevano compagnia. Pochi sono stati poco rispettosi nei miei confronti. In fondo è gente buona quella che fa questa caccia al tesoro che chiamano geocaching. In molti sanno che il vero tesoro, la cosa più preziosa che fanno, non è trovare ma è guardare, stare nel luogo scelto e scoprirne i dettagli, le piccole cose cui si è più attenti durante la ricerca di qualcosa. Poi hanno spostato la scatola e dopo poche settimane è arrivato uno che non sembrava un turista, ha cercato per molto tempo. Forse non sapeva l’avessero spostata. Alla fine si è arreso, si è steso sotto la mia chioma e si è addormentato. Ogni tanto ripassa vestito un po’ così, tra casa e piccola passeggiata. Dev’essere venuto ad abitare qui vicino. Ogni volta si ferma mi abbraccia e appoggia la testa a me. A lungo.

45°42’46.3″N 9°44’24.2″E

È stato un passaggio. Stava salendo lungo la strada e si ferma. Inizia a guardarmi le foglie. Prima quelle basse e poi risale quelle a mezza altezza. Ridiscende con lo sguardo fino in basso e poi ancora su. Traccia una linea con il dito da una foglia in basso fino a una in alto, sfiorando il legno che le congiunge. Non si capacita di come possano essere diverse le due foglie, come se mi fosse difficile tener dentro le differenze e la complessità. Ora mi guarda attentamente. Mi scruta. Cerca foglie diverse. Ne trova. Le coglie. Le tiene in mano, le confronta e sventola. E di questo si è commosso.

Damiano Fustinoni

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